Corte Europea dei Diritti dell'Uomo Prima Sezione
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo Prima Sezione Causa Anna Maria Ciccone c. Italia (Ricorso n° 21492/17)
6/9/202519 min read


Corte Europea dei Diritti dell'Uomo Prima Sezione Causa Anna Maria Ciccone c. Italia (Ricorso n° 21492/17)
Sentenza
Art 6 § 1 (penale) Corte d'assise d'appello che non ha ascoltato gli esperti le cui dichiarazioni nel corso del dibattimento di primo grado sono state interpretate diversamente e sono state decisive per la riforma della sentenza di assoluzione. Lesione dell'equo processo
Redatto dalla Cancelleria. Non vincola la Corte.
Strasburgo 5 giugno 2025
La presente sentenza diventerà definitiva alle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Potrà essere oggetto di modifiche di forma.
Consiglio d'Europa
Sentenza Anna Maria Ciccone c. Italia
Nella causa Anna Maria Ciccone c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in camera composta da:
Ivana Jelić, presidente, Alena Poláčková, Raffaele Sabato, Frédéric Krenc, Alain Chablais, Artūrs Kučs, Anna Adamska-Gallant, giudici, e da Liv Tigerstedt, cancelliere aggiunto di sezione, Visto:
il ricorso (n° 21492/17) presentato contro la Repubblica italiana da una cittadina di tale Stato, la sig.ra Anna Maria Ciccone (« la ricorrente »), il 9 marzo 2017 in virtù dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (« la Convenzione »),
la decisione di comunicare al governo italiano (« il Governo ») il ricorso relativo all'articolo 6 § 1 della Convenzione e di dichiarare irricevibile il ricorso per il resto,
le osservazioni delle parti,
Dopo averne deliberato in camera di consiglio il 6 maggio 2025, Rende la seguente sentenza, adottata a tale data:
Introduzione
Invocando l'articolo 6 § 1 della Convenzione, la ricorrente rimprovera alla corte d'assise d'appello di non aver né convocato né ascoltato gli esperti nominati dalla Procura prima di riformare la sua assoluzione pronunciata in primo grado.
In Fatto
La ricorrente è nata nel 1959 e risiede a Marina di Davoli. È stata rappresentata dall'avv. A. Manno, avvocata a Catanzaro.
Il Governo è stato rappresentato dal suo agente, il sig. L. D'Ascia.
La ricorrente, medico radiologo, fu accusata, insieme ad altre persone, di concorso in omicidio colposo ai danni di R.C., una paziente alla quale aveva omesso di diagnosticare, il 9 novembre 2008, una frattura del femore durante il ricovero ospedaliero avvenuto a seguito di un'aggressione.
Lo stesso giorno, R.C. fu dimessa dall'ospedale. Il 27 novembre 2008, fu ricoverata una seconda volta e, dopo una diagnosi di frattura del femore, fu sottoposta a un intervento chirurgico. Decedette il 28 dicembre 2008.
Durante il dibattimento, la corte d'assise di Catanzaro procedette, tra l'altro, all'audizione di due esperti nominati dalla Procura, D.M.G. e G.O., e di quelli nominati dagli imputati, i quali avevano peraltro prodotto perizie medico-legali sulle cause del decesso della vittima. D.M.G. espose che il decesso della vittima era stato causato da complicanze polmonari o da un disturbo neurologico. Aggiunse che la patologia polmonare della vittima poteva essere dovuta sia al decubito sia alle precedenti complicanze neurologiche, e che non era possibile pronunciarsi a favore dell'una o dell'altra tesi. L'esperto spiegò che la relazione peritale propendeva per la prima tesi in quanto le complicanze neurologiche, sebbene accertate, non erano confermate dagli esami ai quali la vittima era stata sottoposta, pur precisando che « le due ipotesi [erano] aperte ». Dichiarò anche che il decubito aveva certamente avuto effetti negativi ma che non era possibile stabilire scientificamente in che misura avesse contribuito al decesso della vittima.
G.O. dichiarò che era difficile stabilire le conseguenze dell'errore diagnostico sullo stato di salute della vittima. Sebbene le complicanze polmonari fossero possibili conseguenze negative di errori diagnostici di fratture del femore, in questo caso mancavano elementi oggettivi per affermare che il decubito avesse causato la patologia polmonare della vittima.
Con sentenza del 13 ottobre 2014, la corte d'assise di Catanzaro, in primo grado, assolse la ricorrente. Essa ritenne che, se l'errore diagnostico da essa commesso era indubbio, la questione era quella di sapere se tale errore avesse un nesso di causalità con il decesso della vittima, tenuto conto in particolare del divario temporale tra la diagnosi e il decesso. Riferendosi in particolare alle dichiarazioni rese in udienza dagli esperti nominati dalla Procura (D.M.G. e G.O.), essa constatò, in primo luogo, che la causa del decesso non corrispondeva a una delle eventuali conseguenze di una diagnosi tardiva di frattura del femore. Si riferì quindi alle due possibili cause del decesso che erano state identificate dagli esperti, vale a dire l'insorgenza di una patologia neurologica o polmonare. A tale riguardo, rilevò, da un lato, che la patologia neurologica, di cui la vittima presentava sintomi, non era stata confermata dagli esami effettuati e, dall'altro, che se l'esistenza di una patologia polmonare al momento del decesso non era contestata, non era provato che fosse una conseguenza del decubito prolungato della ricorrente causato da una diagnosi errata. La corte d'assise considerò in particolare che le due circostanze che le impedivano di comprendere così la causa del decesso erano le buone condizioni di salute della vittima al momento del secondo ricovero e il fatto che, secondo le dichiarazioni presentate dagli esperti in udienza, l'affezione polmonare poteva essere la conseguenza di una disfunzione neurologica. Concluse che non poteva essere provato secondo il criterio del « grado di elevata probabilità logica » che il decesso della vittima non sarebbe avvenuto (o che sarebbe avvenuto posteriormente) o che le conseguenze dell'aggressione sarebbero state meno gravi se la ricorrente non avesse commesso un errore diagnostico.
La Procura propose appello. Con sentenza del 2 dicembre 2015, la corte d'assise d'appello riformò la sentenza di assoluzione e condannò la ricorrente a una pena di otto mesi di reclusione nonché al pagamento di danni e interessi alle parti civili. Essa ritenne che la corte d'assise fosse « stata influenzata, in un certo qual modo, dalle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento dagli esperti nominati dalla Procura, di cui uno in particolare (D.M.G.) aveva dato l'impressione di aver cercato di "alleggerire" la posizione dei medici imputati, minimizzando e riducendo la portata delle conclusioni alle quali era lui stesso giunto nella sua relazione peritale». La giurisdizione d'appello evidenziò il legame fatto nella relazione tra la patologia polmonare, che sulla base dei risultati degli esami effettuati non era recente, e il decubito, nonché la conclusione secondo la quale l'errore diagnostico aveva aumentato significativamente la probabilità di decesso della vittima. Si riferì anche ad alcune delle dichiarazioni rese dagli esperti nel corso del dibattimento. A tale riguardo, riconobbe che tali dichiarazioni contenevano «valutazioni dubitative ed elementi di incertezza», pur facendo risaltare i passaggi che confermavano le conclusioni contenute nella relazione peritale.
Sulla base di questi elementi, la corte d'assise d'appello criticò l'affermazione della corte d'assise secondo cui non era provato che una delle possibili conseguenze di una diagnosi tardiva di frattura del femore fosse verificata in questo caso. Rilevò invece che sia la relazione peritale medico-legale che le dichiarazioni rese dagli esperti in udienza permettevano di stabilire che la patologia polmonare rilevata durante il secondo ricovero era una conseguenza del decubito prolungato della vittima, ovvero una delle eventuali complicanze del ritardo nel trattamento delle fratture del femore.
La ricorrente propose ricorso per cassazione. Lamentò tra l'altro che la corte d'assise d'appello avesse riformato il verdetto della corte d'assise senza aver ordinato una nuova audizione degli esperti nominati dalla Procura.
Con sentenza del 13 gennaio 2017, la Corte di cassazione rigettò il ricorso della ricorrente. Essa ritenne che la corte d'assise d'appello non fosse tenuta ad ascoltare gli esperti a causa della specificità delle loro dichiarazioni rispetto a quelle dei testimoni. Rilevò inoltre che la corte d'assise d'appello aveva condannato la ricorrente sulla base delle stesse prove che avevano portato la corte d'assise, in primo grado, a pronunciare un'assoluzione e che essa aveva rimesso in discussione solo la valutazione di alcune dichiarazioni degli esperti. Concluse che la riforma dell'assoluzione non era fondata in modo esclusivo o determinante su una diversa lettura delle prove di natura dichiarativa.
Il Contesto Giuridico e la Prassi Interna Pertinenti
I. Il Diritto Interno Pertinente
A. La reformatio in pejus delle sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado
Il quadro giuridico e la prassi interni applicabili sono descritti nelle sentenze Lorefice c. Italia (n° 63446/13, §§ 26-28, 29 giugno 2017), Di Martino e Molinari c. Italia (n° 15931/15 e 16459/15, §§ 15-16, 25 marzo 2021) e Maestri e altri c. Italia (n° 20903/15 e 3 altri, §§ 18-27, 8 luglio 2021) quando si tratta di riformare in appello le sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado.
In particolare, nella sentenza n° 27620, depositata presso la cancelleria della Corte di cassazione il 6 luglio 2016, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui il giudice d'appello non può riformare una sentenza di assoluzione « senza aver preventivamente ordinato, anche d'ufficio, ai sensi dell'articolo 603, comma 3, del codice di procedura penale, l'audizione dei testimoni le cui dichiarazioni siano state decisive ».
Con la sentenza n° 14426 del 2 aprile 2019, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno enunciato i seguenti principi generali:
« Le dichiarazioni rese in udienza dal perito nominato dal giudice [perito] costituiscono prove di natura dichiarativa. Di conseguenza, se le suddette dichiarazioni sono determinanti, la giurisdizione d'appello deve procedere a una nuova audizione del perito prima di riformare l'assoluzione sulla base di una diversa valutazione delle stesse. Se in primo grado la relazione peritale - previo accordo delle parti - è stata oggetto di lettura senza che il perito sia stato interrogato in udienza, la giurisdizione d'appello non è tenuta a procedere all'audizione di quest'ultimo prima di riformare la sentenza di assoluzione. Le dichiarazioni rese oralmente dal consulente tecnico [consulente tecnico, ovvero l'esperto nominato dalla Procura e/o dalle parti al processo] devono essere considerate prove di natura dichiarativa, sicché, se costituiscono il fondamento della sentenza di assoluzione in primo grado, il giudice d'appello - in caso di riforma di detta sentenza sulla base di una diversa valutazione delle stesse - ha l'obbligo di procedere a una nuova audizione ai sensi dell'articolo 603, comma 3, del codice di procedura penale. »
Applicando tali principi generali, la Corte di cassazione ha successivamente ritenuto a più riprese che, in caso di riforma in appello di un'assoluzione pronunciata in primo grado, il giudice d'appello è tenuto ad ascoltare gli esperti le cui dichiarazioni rese in udienza siano state decisive, anche se la loro relazione peritale era stata depositata, quando ha interpretato diversamente dette dichiarazioni e le ha valorizzate in modo autonomo (sentenze della Corte di cassazione n° 7379/24 del 19 febbraio 2024 e n° 13379/24 del 3 aprile 2024).
B. I periti giudiziari nel diritto italiano
L'attuale codice di procedura penale italiano è stato introdotto dal decreto del Presidente della Repubblica n° 447 del 22 settembre 1988, entrato in vigore il 24 ottobre 1989. Tale codice prevede due categorie di periti giudiziari: quelli nominati dal giudice (periti) e quelli nominati dalla Procura e/o dalle parti al processo, detti « consulenti tecnici » (consulenti tecnici).
Per quanto riguarda il perito nominato dal giudice, le disposizioni pertinenti attualmente in vigore sono le seguenti:
Articolo 220
« La perizia è ammessa quando occorre eseguire indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (...) »
Articolo 221
« Il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti negli albi dei periti giudiziari o tra persone dotate di particolare competenza nella materia. In caso di dichiarazione di nullità della perizia, il giudice provvede, se possibile, ad affidare il nuovo incarico ad altro perito:
(...)
Il perito è tenuto ad adempiere l'incarico conferitogli, salvo che ricorra uno dei motivi di astensione previsti dall'articolo 36. »
Articolo 226
« Dopo aver accertato l'identità del perito, il giudice gli chiede se si trovi in una delle situazioni indicate negli articoli 222 [motivi di incapacità o incompatibilità del perito] e 223 [motivi di astensione e ricusazione del perito], lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale (articolo 373 del codice penale) e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: « consapevole della responsabilità morale e giuridica che mi assumo nell'adempimento della mia funzione, mi impegno a svolgere il mio incarico nel solo scopo di far conoscere la verità e a mantenere il segreto per tutta la durata delle operazioni peritali ». »
Articolo 227
« Dopo che le formalità procedurali relative all'attribuzione del mandato sono state espletate, il perito procede immediatamente agli accertamenti necessari e risponde alle domande con parere inserito nel verbale delle operazioni peritali.
(...)
Quando è indispensabile esporre il parere per iscritto, il perito può chiedere al giudice l'autorizzazione a presentare, nel termine fissato dai commi 3 e 4, una relazione scritta. »
Ai sensi dell'articolo 373 del codice penale, il perito nominato dal giudice, che dà un parere mendace o enuncia fatti non conformi al vero, è punito con la reclusione da due a sei anni.
La Procura e le parti al processo possono nominare « consulenti tecnici » sia a seguito della decisione del giudice di nominare un perito (articolo 225) sia di propria iniziativa (articolo 233). Le disposizioni pertinenti recitano come segue:
Articolo 225
« A seguito della decisione del giudice di nominare un perito, la Procura e le parti al processo hanno la facoltà di nominare i propri consulenti tecnici che, per ciascuna parte, non possono superare il numero dei periti nominati dal giudice (...) »
Articolo 233
« Se il giudice non ha nominato un perito, ciascuna parte può nominare al massimo due consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il loro parere, anche mediante memorie scritte (...) »
Le disposizioni relative all'audizione dei periti giudiziari durante il dibattimento sono le seguenti:
Articolo 501
« Per quanto riguarda l'audizione dei periti (articoli 220 e seguenti) e dei consulenti tecnici (articoli 225, 233, 359, 360), le disposizioni relative all'audizione dei testimoni si applicano se compatibili. Almeno sette giorni prima dell'udienza fissata per la sua audizione, il perito nominato dal giudice, che vi è stato autorizzato ai sensi dell'articolo 227 comma 5, deposita nella cancelleria la sua relazione scritta. Nello stesso termine, se una delle parti nomina un consulente tecnico, questi può, se redige una relazione scritta, depositarla nella cancelleria. »
Articolo 508
« Se il giudice, d'ufficio o su richiesta di una delle parti, dispone una perizia, il perito è immediatamente convocato
Certo, ecco la traduzione in italiano della parte restante del documento:
Articolo 511
« Il giudice, anche d'ufficio, può disporre che i periti e i consulenti tecnici si sottopongano a un interrogatorio supplementare. »
Articolo 514
« Su richiesta del pubblico ministero o di una delle parti, le dichiarazioni rese in precedenza dai testimoni, dai periti e dai consulenti tecnici possono essere lette in udienza: (...) b) se il testimone, il perito o il consulente tecnico è morto o è affetto da grave infermità; c) se il testimone, il perito o il consulente tecnico è irreperibile. »
II. La prassi pertinente della Corte di cassazione
Si veda anche la prassi pertinente descritta nelle sentenze Lorefice c. Italia (cit., §§ 29-32) e Di Martino e Molinari c. Italia (cit., §§ 17-21) relative alla riforma in appello di sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado.
Diritto
I. Sull'eccezione preliminare del Governo
Il Governo sostiene che la ricorrente non può rivendicare la qualità di « vittima » ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione. Esso fa riferimento in particolare al principio enunciato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (si veda il paragrafo 15 supra) secondo cui la riaudizione degli esperti in appello non è obbligatoria quando la loro relazione peritale è stata acquisita in primo grado e non sono stati interrogati, e la sentenza di assoluzione è stata riformata in appello sulla base di una diversa valutazione di tale relazione. In questa ipotesi, poiché la ricorrente è stata condannata sulla base del suo rapporto peritale, non ha subito alcun danno in merito alla violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
La ricorrente contesta questa tesi.
La Corte rileva che questa eccezione sollevata dal Governo è strettamente legata al fondamento della richiesta. La Corte preferisce quindi unirla al fondamento.
II. Sulla pretesa violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione
La ricorrente lamenta che la Corte d'assise d'appello l'abbia condannata riformando la sua assoluzione senza aver udito gli esperti nominati dal pubblico ministero le cui dichiarazioni erano state decisive per la sua assoluzione in primo grado. Essa invoca l'articolo 6 § 1 della Convenzione, i cui passaggi pertinenti recitano:
« Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia sulle controversie sui suoi diritti e doveri civili, sia sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. »
A. Sull'ammissibilità
La Corte constata che questo ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell'articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non è inammissibile per nessun altro motivo. È quindi necessario dichiararlo ammissibile.
B. Sul fondamento
1. Principi generali
La Corte ricorda che i principi generali applicabili in materia di riforma in appello di un'assoluzione pronunciata in primo grado sono stati riassunti nella sentenza Nechyporuk e Yanko c. Ucraina (n° 42392/04, §§ 40-42, 21 luglio 2011). Essi sono stati ripresi in diverse sentenze successive, tra cui quella nella causa Di Martino e Molinari c. Italia (cit., §§ 27-29).
I principi generali specifici pertinenti alla presente causa, applicabili quando il giudice d'appello deve riformare una sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado sulla base di prove dichiarative, sono stati riassunti nella sentenza Lorefice c. Italia (cit., §§ 36-39). Essi sono stati ripresi in diverse sentenze successive, tra cui quella nella causa Di Martino e Molinari c. Italia (cit., § 30) e Maestri e altri c. Italia (cit., § 35).
In particolare, la Corte ha sottolineato che, se è vero che essa non può in linea di principio rimettere in discussione l'interpretazione del diritto interno da parte dei tribunali nazionali, essa deve assicurarsi che le procedure interne siano conformi alle garanzie di equità del processo. Pertanto, nel contesto di una procedura di riforma di una sentenza di assoluzione, deve verificare che le modalità di riassunzione e valutazione delle prove in appello non abbiano violato il principio dell'equità del processo, compresa la possibilità per l'imputato di affrontare in udienza le prove a suo carico (ibidem).
La Corte ha poi precisato che, nel caso in cui una sentenza di assoluzione si fondi su prove dichiarative considerate dal giudice di primo grado come decisive per l'esito della causa, l'equità del processo esige in linea di principio che la persona che testimonia contro l'imputato sia sentita in udienza. Per quanto riguarda l'audizione dei testimoni, le garanzie procedurali previste dall'articolo 6 § 1 e 3 d) della Convenzione implicano in particolare che l'imputato abbia l'opportunità di confrontarsi con i testimoni a carico e di controinterrogarli. La Corte ha chiarito che non è sufficiente che l'imputato abbia avuto l'opportunità di confrontarsi con tali testimoni in prima istanza, prima della sua assoluzione. Essa ha insistito sul fatto che è invece necessario che, prima di condannare l'imputato in appello, il giudice d'appello riascolti i testimoni a carico (Di Martino e Molinari c. Italia, cit., § 31, e Maestri e altri c. Italia, cit., § 36).
La Corte ha altresì precisato che i principi generali relativi all'audizione dei testimoni da parte del giudice d'appello sono applicabili anche alle audizioni degli esperti (Iliya Stoyanov c. Bulgaria (dec.), n° 19280/09, 31 marzo 2015, e Alberg c. Svezia (dec.), n° 66923/01, 14 giugno 2005). Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata più volte sulla questione della riaudizione degli esperti da parte del giudice d'appello italiano. Essa ha in particolare ritenuto che, in una situazione in cui la giurisdizione d'appello riforma una sentenza di assoluzione sulla base di prove peritali che essa ha interpretato diversamente, senza aver sentito gli esperti durante il dibattimento, vi è violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione (Di Martino e Molinari c. Italia, cit., § 32, e Maestri e altri c. Italia, cit., § 37).
La Corte ribadisce l'importanza del principio della presenza dell'imputato al momento dell'audizione delle prove a suo carico. Tale principio, insieme a quello di immediatezza, costituisce il fondamento del processo penale accusatorio.
2. Applicazione al caso di specie
La Corte osserva che, nel caso di specie, la ricorrente è stata accusata di concorso in omicidio colposo. La sua assoluzione in primo grado si è basata in particolare sulla valutazione delle dichiarazioni orali rese in udienza dai due esperti nominati dalla Procura, D.M.G. e G.O. (paragrafo 8 supra).
La Corte d'assise d'appello, pur confermando l'esistenza di un nesso di causalità tra l'errore diagnostico e il decesso, ha riformato la sentenza di assoluzione e condannato la ricorrente sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni dei due esperti (paragrafi 9 e 10 supra). La Corte d'assise d'appello ha ritenuto che la Corte d'assise fosse stata « influenzata, in un certo qual modo, dalle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento dagli esperti nominati dalla Procura, di cui uno in particolare (D.M.G.) aveva dato l'impressione di aver cercato di "alleggerire" la posizione dei medici imputati, minimizzando e riducendo la portata delle conclusioni alle quali era lui stesso giunto nella sua relazione peritale ». La giurisdizione d'appello ha quindi messo in evidenza il legame fatto nel rapporto tra la patologia polmonare, che sulla base dei risultati degli esami effettuati non era recente, e il decubito, nonché la conclusione secondo cui l'errore diagnostico aveva aumentato significativamente la probabilità di decesso della vittima (paragrafo 9 supra). Si è quindi riferita ad alcune delle dichiarazioni rese dagli esperti nel corso del dibattimento, riconoscendo che tali dichiarazioni contenevano « valutazioni dubitative ed elementi di incertezza », pur facendo risaltare i passaggi che confermavano le conclusioni contenute nella relazione peritale. Ha concluso che tanto la relazione peritale medico-legale quanto le dichiarazioni rese dagli esperti in udienza permettevano di stabilire che la patologia polmonare rilevata durante il secondo ricovero era una conseguenza del decubito prolungato della vittima, ovvero una delle eventuali complicanze del ritardo nel trattamento delle fratture del femore (paragrafo 10 supra).
La Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'assise d'appello di non udire gli esperti, ritenendo che la giurisdizione d'appello non fosse tenuta a farlo a causa della specificità delle loro dichiarazioni rispetto a quelle dei testimoni. Ha inoltre rilevato che la Corte d'assise d'appello aveva condannato la ricorrente sulla base delle stesse prove che avevano portato la Corte d'assise, in primo grado, a pronunciare un'assoluzione e che essa non aveva rimesso in discussione che l'apprezzamento di alcune dichiarazioni degli esperti. Ha concluso che la riforma dell'assoluzione non era fondata in modo esclusivo o determinante su una lettura diversa delle prove di natura dichiarativa (paragrafo 12 supra).
La Corte rileva che la normativa nazionale stabilisce che il giudice d'appello è tenuto ad ascoltare gli esperti le cui dichiarazioni rese in udienza sono state decisive, anche se la loro relazione peritale era stata depositata, quando ha interpretato diversamente dette dichiarazioni e le ha valorizzate in maniera autonoma (paragrafo 16 supra).
La Corte osserva che, nel caso di specie, la Corte d'assise d'appello ha riformato la sentenza di assoluzione della ricorrente dopo aver interpretato diversamente le dichiarazioni orali rese in udienza da due esperti nominati dalla Procura, D.M.G. e G.O., senza averli sentiti di nuovo. Invece di convocare e ascoltare nuovamente questi due esperti, la Corte d'assise d'appello si è limitata a fare riferimento alle loro dichiarazioni rese in primo grado, di cui ha messo in discussione la portata e il contenuto, prima di riformare la sentenza di assoluzione. In tal modo, essa ha basato la sua condanna su elementi dichiarativi che erano stati la base dell'assoluzione in primo grado, ma che sono stati oggetto di una diversa valutazione da parte del giudice d'appello.
La Corte di cassazione ha respinto il ricorso della ricorrente basandosi su una differenziazione tra le dichiarazioni degli esperti e quelle dei testimoni. A questo proposito, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha già avuto occasione di ribadire che i principi generali relativi all'audizione dei testimoni da parte del giudice d'appello sono applicabili anche alle audizioni degli esperti (paragrafo 32 supra). Per quanto riguarda le dichiarazioni dei consulenti tecnici, la Corte ha già avuto l'occasione di ritenere che esse rientrano nella nozione di « prove dichiarative » (sentenza Di Martino e Molinari c. Italia, cit., §§ 32 e 33, e Maestri e altri c. Italia, cit., § 37).
Inoltre, la Corte rileva che la Corte di cassazione ha fatto riferimento alla circostanza che le prove sulle quali la Corte d'assise d'appello aveva basato la sua condanna erano le stesse che avevano portato il giudice di primo grado ad assolvere la ricorrente e che non si trattava che di una diversa valutazione di alcune dichiarazioni degli esperti (paragrafo 12 supra). La Corte europea dei diritti dell'uomo ricorda che, per garantire l'equità del processo nel suo complesso, il giudice d'appello che decide sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato deve, in linea di principio, procedere a un esame diretto e personale delle prove a carico. Anche se la Corte non ha ritenuto che il principio della presenza dell'imputato e di immediatezza richieda sempre una riaudizione dei testimoni da parte del giudice d'appello (si veda la sentenza Ibrahim e altri c. Regno Unito [GC], n° 50541/08 e 3 altri, §§ 275-279, 13 settembre 2016), essa ha ripetuto a più riprese che, quando il giudice d'appello deve decidere sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato, esso non può, in linea di principio, basare la sua condanna sulla sola lettura delle dichiarazioni di un testimone rese in precedenza (sentenza di rinvio della Grande Camera nel caso Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], n° 26766/05 e 22228/06, § 145, CEDU 2011, e Dan c. Moldova, n° 8999/07, § 33, 5 luglio 2011). In particolare, per quanto riguarda la riforma in appello di sentenze di assoluzione, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sottolineato che, quando il giudice d'appello intende riformare un'assoluzione sulla base di prove dichiarative che sono state decisive per l'assoluzione, deve riaudire i testimoni e gli esperti interessati (si vedano, tra altre, le sentenze Lorefice c. Italia, cit., §§ 40-41, e Di Martino e Molinari c. Italia, cit., §§ 31-32, e Maestri e altri c. Italia, cit., § 37).
La Corte rileva che, nel caso di specie, la Corte d'assise d'appello si è basata sulla valutazione delle dichiarazioni orali degli esperti, che sono state decisive per la sua condanna, senza aver udito nuovamente tali esperti, mentre la Corte di cassazione ha ritenuto che tale audizione non fosse necessaria. La Corte europea dei diritti dell'uomo ritiene che tale modus operandi abbia leso il diritto della ricorrente a un processo equo, come garantito dall'articolo 6 § 1 della Convenzione.
Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
III. Sull'applicazione dell'articolo 41 della Convenzione
L'articolo 41 della Convenzione recita:
« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno della Parte contraente non consente che una riparazione perfetta sia fatta, la Corte accorda, se del caso, alla parte lesa una soddisfazione equa. »
A. Danno
La ricorrente chiede 20 000 EUR a titolo di danno morale.
Il Governo ritiene che il constatare di una violazione sarebbe di per sé una soddisfazione equa sufficiente per qualsiasi danno morale che possa essere stato subito dalla ricorrente.
La Corte ritiene che il constatare di una violazione fornisca di per sé una soddisfazione equa sufficiente per qualsiasi danno morale che possa essere stato subito dalla ricorrente.
B. Spese
La ricorrente chiede inoltre 5 001,17 EUR per spese e onorari. Essa chiede la somma complessiva di 10 000 EUR per le spese sostenute dinanzi ai tribunali nazionali e 5 000 EUR per quelle dinanzi alla Corte, senza fornire il dettaglio delle spese sostenute dinanzi ai tribunali nazionali. Essa allega l'originale del suo contratto di patrocinio che stabilisce le spese a 1 000 EUR.
Il Governo contesta questa richiesta. Ritiene che l'importo richiesto dalla ricorrente sia eccessivo e che non sia adeguatamente documentato. Suggerisce che la Corte, tenuto conto dei documenti di cui dispone e della sua giurisprudenza, conceda la somma di 3 000 EUR.
Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese solo nella misura in cui sono state effettivamente e necessariamente sostenute e sono di importo ragionevole. Nel caso di specie, la Corte rileva che la ricorrente ha presentato un contratto di patrocinio che specifica che la somma di 1 000 EUR è stata convenuta tra l'avvocato e la ricorrente. Per quanto riguarda le spese sostenute dinanzi ai tribunali nazionali, la ricorrente non ha fornito i documenti giustificativi delle somme richieste. D'altra parte, la Corte ritiene che la somma di 5 001,17 EUR sia ragionevole per le spese e gli onorari, e la concede alla ricorrente.
C. Interessi di mora
La Corte ritiene appropriato che il tasso di interesse di mora sia basato sul tasso di interesse marginale della Banca centrale europea, maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL'UNANIMITÀ,
Unisce al fondamento e respinge l'eccezione del Governo basata sull'assenza di qualità di vittima della ricorrente;
Dichiara il ricorso ammissibile;
Dichiara che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione;
Dichiara che il constatare di una violazione fornisce di per sé una soddisfazione equa sufficiente per qualsiasi danno morale che possa essere stato subito dalla ricorrente;
Dichiara
a) che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, 5 001,17 EUR (cinquemilauno euro e diciassette centesimi), più qualsiasi importo che possa essere dovuto dalla ricorrente a titolo di imposta su tale somma, per spese e onorari;
b) che a partire dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi saranno maggiorati di un interesse semplice a un tasso pari a quello della facilità di prestito marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali
Respinge il resto della domanda di soddisfazione equa.
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